Un racconto dalle ere, e qualcosa di più nuovo

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Double treat oggi; un racconto dagli archivi impolverati della mia memoria e due parole su The wolf among Us.

Correva l’anno 199X. Silvio Berlusconi era un nome nuovo sulla ribalta della politica italiana, si pagavano le cose con le lire ed l’America era lontana. Per un giovane ragazzino della periferia di Milano, però, non così tanto.

Questo ragazzino, che chiameremo Pito, passava le giornate giocando a baseball, lottando con il suo cane per gli avanzi del pranzo e crescendo in maniera più salutare di quanto non si direbbe vedendolo oggi.

Giocando a baseball, ovviamente, si cresce con il mito dell’america; perchè è li che lo sport ha la sua diffuzione più capillare, che accendendo la tv trovi gente che gioca allo sport dei Re invece che al pallone, è li che comprare un guantone è possibile senza dover viaggiare mezza penisola. E se il tuo allenatore è uno giusto, ci sta che un paio di settimane all’anno le passi in america, a partecipare ad un Camp sullo sport in cui ti alleni con seri professionisti e ti confronti con giocatori degli states. Se i tuoi dopotutto ci stanno più dentro di quanto tu non diresti a 1X anni, ci sta che ti paghino l’esperienza.

E fu così che per la prima volta nella mia vita mossi i primi passi da solo (oddio, quasi) nel continente americano. Destinazione: Trenton, New Jersey, per partecipare presso il campus del College locale ad una settimana di brutali allenamenti al confronto dei quali quelli di Mila e Shiro sono una passeggiata mattutina lungo il naviglio.

Prima di questo, però, una settimana da turisti; New York, Philadelphia, gli Yankees; Immaginate di aver soltanto sentito parlare dei giocatori che state andando a vedere. Erano gli anni in cui Derek Jeter era interbase per gli Yankees, mica cazzi. Ci spostavamo per gli states con un pulmino della scuola; fantastico. Il nostro autista era questo nero pancione che sembrava uscito da un film per ragazzi, quelli che chiamano il protagonista “campione” e non dicono niente delle marachelle ai genitori con occhiolino d’intesa

not actually this guy, but close enough

Tutti a bordo del pulmino dell’amore

Abbiamo visitato Philadelphia, dove ho mangiato un panino che ancora oggi non ha eguali nella mia memoria; abbiamo visto un chilo e mezzo di luoghi storici (per convenienza, in america tutta la storia è avvenuta a Philadelphia, così in una giornata hai fatto tutto) e la Liberty Bell (che, ahimè, non ho leccato). Ci siamo mossi presso un parco divertimenti, un Six Flags, dove abbiamo dato una ripassata a laser tag a degli americani che scioccamente seguivano le regole laddove noi applicavamo tattiche di guerriglia, ed abbiamo visitato New York. Meta finale: lo Yankee Stadium.

not pictured: the rest of new york

non preoccupatevi di quelle brutte case sul lato. non ancora.

Ci accomodiamo e godiamo dello spettacolo che sono gli americani allo stadio. La partita è il meno; sono li per socializzare, mangiare, bere e far casino. Se poi c’è chi gioca meglio. In questo caso specifico, gli Yankees han dato una ramazzata che levati ai Toronto Blue Jays. Tutto molto bene quindi; si fan le 23.00 circa, la partita è terminata, usciamo dallo stadio e ci dirigiamo al pick-up point stabilito con il nostro autista.

Che non si vede.

Niente panico; sta svuotandosi lo stadio, le macchine abbandonano il parcheggio, probabilmente è bloccato nel traffico. Aspettiamo. Aspettiamo un’oretta. Si fa mezzanotte, e la zona tra stadio e parcheggio è deserta, salvo qualche ritardatario e le forze dell’ordine.

Questo è credo il momento migliore per menzionare che lo yankee stadium si trova nel bronx, fattore che ha bussato alla soglia della nostra consapevolezza nell’ultima oretta, e che ora ha sfondato la porta con un ariete da sfondamento portatile e sta procedendo a fucilare i pochi neuroni non ancora in panico.

bracchiamo una coppia di pulìsmen e chiediamo – preghiamo – loro di darci una mano. Un taxi andrebbe bene, possono chiamarci un paio di taxi? Noi siamo turisti e senza telefono.

“qui c’è scritto “agente”, non chiama-taxi. Se fate il giro dello stadio ne trovate sul davanti”

FFFFFfffantastico. In tutto questo io sono nella fase in cui “conosco-l’inglese-ma-non-lo-parlo” in cui capisco tutto ma non articolo niente (per scelta). Il mio panico aumenta leggermente quando il nostro allenatore realizza che tassisti non ce ne sono, non di quelli classici almeno, ma ci sono un paio di “autisti privati” che per 50 dola ci possono portare dove dobbiamo andare.

Ora, questo è uno scam piuttosto classico; il tassista abusivo ti carica accordandosi per un prezzo, poi durante la corsa (attraverso un quartieraccio, o in autostrada, dove non puoi scendere) ti dice che l’han chiamato dalla centrale e insomma il prezzo è salito.

Senza altre scelte, ci arrampichiamo su due macchine che sono state lavate l’ultima volta nel devoniano, e ci lanciamo nell’autostrada verso Trenton. Il nostro tassista è simpatico, ci spiega che è una fortuna che l’abbiano trovato e che stava per staccare, ma si vede che avevamo bisogno – anche lui giocava a baseball da giovane, che coincidenza.

Ci fermiamo ad una stazione di servizio, dove ci dicono che la benzina è a carico nostro. E che forse abbiam capito male, ma non erano 50 dollari ma 120. Ma se vogliamo possiamo anche rimanere qui, certo, basta che paghiamo la corsa; 50 dollari.

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come questa, ma non così ridente

Immagino che i due smargiassi pensassero di aver trovato delle prede facili; turisti, spaventati, notte fonda, in mezzo al niente; il seguito prova che aveva torto.

Il nostro allenatore con grazia felina placca – letteralmente – una volante della polizia con due pulìsmen a dir poco stupiti del vedersi un uomo italiano con le mani inchiodate sul cofano della loro volante. Escono dall’auto. uno dei due tassisti si allontana verso la sua auto.

Spieghiamo rapidamente la situazione, mentre l’altro tassista interviene dicendo “noesnoes, non è così, noes”. i pulismani si guardano. uno chiama rinforzi. La nottata volge al peggio per i due tassisti.

Chiediamo a questi pulismani se possono chiamarci un taxi, ma loro si offrono di portarci fino al paese più vicino dove possiamo prendere un treno per trenton. Siamo grati. Questo è la prima e ultima volta (per ora) che viaggio sul retro di una volante; i sedili sono scomodi a dir poco.

Arriviamo alla stazione del treno, salutiamo i gentili pulsimani e traduciamo gli orari dei treni ed i loro tragitti, operazione per cui è stata necessaria la stele di Rosetta, una buona dose di logica laterale e del sano tirare a caso.

Indipendentemente dalle interpretazioni, tutte le scuole di pensiero sono d’accordo: sono le 2 circa, e l’ultimo treno passava all’una e quaranta.

WELL FUCK YOU TOO, FATE

WELL FUCK YOU TOO, FATE

Non nego che il panico aveva passato lo stadio di “bloccante”, aveva abbandonato “paralizzante” alle spalle e grazie ad una buona dose di adrenalina adesso era al livello “cosa può mai succedere di peggio a questo punto, voglio dire, se anche dormite in questa stazione, al massimo quel barbone vi accoltella e poi vi piscia sulle ferite, no?”

Non so chi si sia accorto che di fronte alla stazione dei treni c’era una stazione dei taxi. Ma qualcuno sen’è accorto. Entriamo nel piccolo ufficio e spieghiamo la nostra situazione all’impiegato mezzo addormentato. Non c’è problema, ma ha un solo autista stanotte; dovremo far due viaggi. Imbarchiamo uno dei due adulti responsabili ed i ragazzi più giovani in una macchina che definiremo tale solo pr la presenza di quattro ruote ed un volante, ed auguriamo loro di arrivare sani e salvi al dormitorio. Intanto noi andiamo a prenderci da bere ad un 7/11 poco distante.

Torniamo in tempo per sentire il dispatcher che parla al telefono con qualcuno che grida. Ci dice che è il nostro adulto responsabile dal taxi.

Un tuono romba distante.

Siccome non vuole farsi capire dall’autista, sia mai che parla italiano, passa alla lingua della classe nobile: il milanese.

“Mario, s’un dre a turnà indrè” (Mario, stiamo tornando indietro)

“ma perchè?”

“eh, l’autista, chi…”

“eh..”

“l’è ciuc” (è ubriaco)

Tornano alla base con un autista che è effettivamente ubriaco marcio (come potete sospettare si tratta di un parere professionale), ma che comunque sostiene di poter guidare. Dopodichè cade, si aggrappa al baule della macchina, perde il birone di caffè, smadonna, risale in macchina e se ne va.

L’impiegato chiama il propietario, che arriva dopo pochi minuti, smadonna come qualcuno che è stato svegliato alle due e mezza perchè il tuo dipendnete ubriaco è scappato nella notte con la tua auto, ci carica in un minivan, si scusa per tutto il viaggio e ci molla al dormitorio. Alle tre e mezza.

Tra quattro ore iniziano gli allenamenti.

Dopo questo spaventoso ricordo della mia adolescenza, parliamo di qualcosa di più recente: Parliamo di qualcosa di oggi. Parliamo di The Wolf Among Us.

Woof.

The Wolf Among Us è l’ultima fatica della Telltale games, l’unica casa che si sforza di mantenere vivo il punta e clicca in quest’era di sparatutto e titoli tripla A. Vi ricorderete di loro per giochi come Tales of Monkey Island, Jurassic Park: The Game e il recente The Walking dead, che ha fatto commuovere la comunità videludica internazionale con la sua storia ben scritta, ricca di scelte difficili che pesano sulla coscienza del giocatore. Beh, ha fatto commuovere tutti tranne 4chan. Ma non è che non ce lo si aspettasse.

Quest’ultimo gioco trae ispirazioni da Fables, serie a fumetti la cui idea è semplice; i personaggi delle fiabe esistono davvero, e sono fuggiti dalla loro dimora ancestrale per rintanarsi a New York, dove convivono un pò scomodamente con gli umani.

Come dite? American Gods? Good Omens? no, no. Giuro.

Della serie a fumetti non dirò altro, dato che rischio di spoilerare l’esperienza pure a me stesso. Parliamo invece del gioco; Vestiremo i panni di Bigby Wolf, il Lupo Cattivo delle fiabe, che sta cercando di cambiare vita e di occupare il posto di sceriffo per i membri di Fabletown.

Ovviamente, non a tutti può far piacere avere uno sceriffo che fino all’altroieri abbatteva case a soffi e divorava ragazzine per molestare le vecchie (o era il contrario? non ricordo mai)

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No, IO sono la legge!

I membri di questa graziosa comunità, almeno quelli dall’aspetto poco umano (tipo un grosso lupo cattivo) mantengono una facciata di normalità tramite incantesimi che permettono loro di passar per normali; Bigby si muove per la città grazie a questo trucco, ma il lupo è sempre in agguato sotto la pelle del nostro detective hard-boiled, e minaccia di saltar fuori a fare una strage se non viene tenuto sotto controllo.

Un’indagine per omicidio in una comunità in cui da anni nessuno veniva ucciso non è, quindi, l’ambiente lavorativo adatto.

Il gioco, come tutte le serie episodiche della Telltale, è composto da 5 episodi della durata di circa due ore l’uno, che verranno rialsciati in un arco di, si spera, cinque mesi. La qualità del prodotto è aumentata molto rispetto alla loro precedente esperienza, The Walking Dead; l’interfaccia grafica (sempre molto minimal per favorire maggiore immersione) è più pulita e lineare, i personaggi sono meglio definiti (lo stile cel-shading/fumetto rimane ovviamente anche per questo gioco, ma sembra in qualche modo più “vivo”), e i loro movimenti più credibili. I fondali, poi, sembrano essere stati presi direttamente da un fumetto cartaceo.

“il mio naso è una piramide. sul serio”

Rispetto ad altri giochi del genere, va sicuramente menzionata la regia delle cutscene; si tratta di un lavoro sicuramente di alto livello, quasi televisivo. Può sembrare una cosa brutta, forse, ma esistono serie tv in cui la regia è magistrale, e le cutscene di questo gioco sono a quei livelli. le musiche e il doppiagio sono anch’essi di alto livello, come ci si aspetta dalle produzioni Telltale.

Tutta la serie costa la bellezza di 22 euro e spiccioli su Steam o dal sito della Telltale, e non posso che consigliarne l’acquisto. Nella mia scala personale da Banana a Restrello, questo gioco si aggiudica facilmente un Marshmallow.

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